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Vasa, la leggendaria nave da guerra svedese che affondò dopo 1300 metri e tornò alla luce dopo 333 anni

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Immaginate il simbolo della potenza assoluta del Seicento: un gigante del mare, il Vasa, orgoglio della corona svedese. Più che una nave da guerra, era un palazzo galleggiante: 64 cannoni pronti a tuonare, lo scafo ricoperto di centinaia di sculture dipinte e dettagli dorati, progettato per incutere terrore e ammirazione. Il 10 agosto 1628, a Stoccolma, una folla immensa si radunò sul porto per assistere al suo viaggio inaugurale. Le vele si gonfiarono, i portelli dei cannoni si aprirono per la salva di saluto e la nave scivolò maestosa sull’acqua. Percorse appena 1.300 metri. Poi, una folata di vento la piegò su un fianco. Fu un attimo fatale: l’acqua si riversò dai portelli aperti del ponte inferiore e, in pochi minuti, il colosso si inabissò davanti agli occhi increduli di un’intera città.

Come poté accadere una simile catastrofe? La causa fu un misto di ambizione smisurata e pessima ingegneria. Il re Gustavo II Adolfo voleva la nave più potente del Baltico, e per questo ordinò di aggiungere un secondo ponte di cannoni, modificando il progetto originale. La struttura divenne troppo alta e pesante nella parte superiore, senza un’adeguata zavorra nello scafo per controbilanciarla. In mare, l’equilibrio è tutto. Il principio è semplice: il centro di gravità (il punto in cui si concentra il peso) deve essere il più basso possibile. Sul Vasa, era pericolosamente alto. Bastò un soffio di vento per inclinarlo oltre il punto di non ritorno, e con i portelli dei cannoni aperti, l’acqua divenne il colpo di grazia che lo trascinò a fondo.

Il disastro del Vasa è anche una cronaca di cattiva gestione. Il maestro d’ascia olandese che lo progettò morì prima di vederlo finito, lasciando il cantiere in un caos di ordini contraddittori e scadenze impossibili, dettate dalla fretta del sovrano. Nessuno osava contraddirlo. Un dettaglio scoperto secoli dopo dagli archeologi la dice lunga sulla confusione: i due lati della nave non erano simmetrici. I carpentieri usarono unità di misura diverse, i “piedi” svedesi e quelli olandesi, creando un’asimmetria che, seppur non decisiva, contribuì a minarne la stabilità.

Ci fu persino un test di stabilità, poco prima del varo, che avrebbe dovuto fermare tutto. Trenta marinai ricevettero l’ordine di correre da un lato all’altro del ponte superiore per simulare un rollio. Dopo appena tre passaggi, la nave oscillò in modo così violento e incontrollabile che il test fu immediatamente interrotto. L’ammiraglio responsabile, terrorizzato, capì il pericolo. Eppure, nessuno ebbe il coraggio di riportare la terribile verità al re. La nave fu dichiarata pronta a navigare.

Ma è proprio il suo fallimento a rendere il Vasa un tesoro unico. Per 333 anni, la nave riposò sul fondale fangoso del porto di Stoccolma. Le acque fredde e a bassa salinità del Mar Baltico, prive del verme del legno che distrugge i relitti in altri mari, lo conservarono in modo quasi perfetto. Nel 1956, l’archeologo dilettante Anders Franzén lo individuò. Il 24 aprile 1961, con un’operazione di ingegneria sbalorditiva, il Vasa fu riportato alla luce. Per decenni è stato spruzzato con una sostanza cerosa, il polietilenglicole, che ha sostituito l’acqua nel legno, impedendogli di sbriciolarsi. Oggi, il Vasamuseet di Stoccolma non ospita un relitto, ma la nave stessa, quasi integra al 98%.

Visitare il Vasa oggi è come salire su una macchina del tempo. Non è solo legno antico, ma un racconto vivo di ambizione, arte e fallimento umano. Le sue centinaia di sculture, che un tempo celebravano la gloria della Svezia, oggi raccontano una storia diversa. Ci ricordano che la bellezza non può sfidare le leggi della fisica, che i grandi progetti richiedono umiltà e che a volte la parola più importante è “no”. Il Vasa, nato per dominare i mari, è diventato un’eterna lezione di umiltà, insegnandoci che per costruire qualcosa di veramente duraturo non bastano il potere e l’oro, ma servono equilibrio, saggezza e coraggio.

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