Immagina le città di inizio Novecento. Le strade non erano semplici corridoi per il traffico, ma il cuore pulsante della vita sociale: un grande salotto a cielo aperto dove si camminava, si chiacchierava, i bambini giocavano liberamente e i venditori ambulanti si mescolavano a carri e tram. Lo spazio pubblico era davvero di tutti. Poi, l’arrivo delle automobili: oggetti affascinanti, veloci, ma anche spaventosamente letali. Gli incidenti aumentarono a dismisura, colpendo soprattutto i più deboli. I giornali dell’epoca non usavano mezzi termini, definendo le auto “killer su ruote”. L’opinione pubblica puntava il dito contro i veicoli e i loro conducenti. Per la nascente industria automobilistica, questa era una minaccia mortale: se la strada fosse rimasta “della gente”, le auto non avrebbero mai potuto conquistarla.
Fu allora che prese forma una delle più geniali e subdole operazioni di marketing del XX secolo. Negli anni Venti, negli Stati Uniti, i colossi dell’auto, i concessionari e i club automobilistici unirono le forze in un’alleanza potentissima. L’obiettivo era uno solo: ribaltare la narrazione. La strada doveva diventare il regno esclusivo del motore; chiunque la attraversasse “nel modo sbagliato” doveva essere visto come il colpevole, non come la vittima. Per far questo, serviva una parola nuova, un’etichetta capace di ridicolizzare il pedone. Nacque così il termine “jaywalking”. “Jay” era un insulto popolare all’epoca, usato per descrivere un contadino ingenuo, uno sprovveduto che non sapeva come comportarsi in città. “Jaywalking”, quindi, significava letteralmente “l’attraversamento dello stupido”.
La campagna mediatica fu martellante e incredibilmente creativa. Manifesti, articoli e vignette satiriche iniziarono a dipingere chi attraversava fuori dalle strisce come un irresponsabile. In molte città si arrivò a organizzare veri e propri spettacoli di strada: attori travestiti da pedoni goffi e stupidi (i “jaywalker”) venivano pubblicamente derisi, multati e persino inseguiti da clown. Il concetto di sicurezza, che fino a poco prima significava “rallentare le auto per proteggere le persone”, venne capovolto: ora significava “educare i pedoni a non essere d’intralcio”. Il linguaggio stesso si trasformò, e l’idea che la strada appartenesse alle auto divenne senso comune.
Dalla propaganda si passò presto alle leggi. Con il supporto tecnico delle lobby automobilistiche, le città adottarono nuovi codici della strada. Concetti oggi scontati, come il diritto di precedenza del veicolo, le strisce pedonali come unico punto di attraversamento e i semafori sincronizzati per favorire il flusso delle auto, furono introdotti in quegli anni. Nel giro di pochissimo tempo, un gesto normale e secolare come attraversare la strada in diagonale o fermarsi a parlare divenne un’infrazione. I titoli dei giornali cambiarono radicalmente: si parlava sempre meno di “auto assassine” e sempre più di “pedoni imprudenti”.
Il risultato fu una trasformazione radicale delle nostre città. I marciapiedi si restrinsero per fare spazio a corsie più ampie, sorsero barriere e spartitraffico, e lo spazio pubblico venne rigidamente diviso: qui si cammina, lì si guida. Il gioco dei bambini sparì dalle strade, confinato in parchi recintati. Il pedone, un tempo protagonista dello spazio urbano, divenne un ospite tollerato, costretto a muoversi in aree delimitate.
La trasformazione fu subdola e rapidissima. Le “settimane della sicurezza”, che inizialmente erano dedicate a commemorare le vittime degli incidenti con parate e manifesti contro la velocità, vennero riprogrammate per prendere in giro i “jaywalker”. La parola stessa, “sicurezza”, fu riscritta. Dietro questa rivoluzione non c’era il caso, ma professionisti della comunicazione, potenti lobby e un apparato normativo creato su misura per dare alle automobili un diritto di cittadinanza prioritario.
Certo, la colpa non fu solo dell’industria automobilistica. Anche urbanisti, forze di polizia e cittadini, sedotti dalla promessa di velocità e status sociale, contribuirono al cambiamento. Ma questa storia illumina un punto cruciale: il modo in cui viviamo e percepiamo la strada non è naturale, né immutabile. È il prodotto di precise scelte culturali, economiche e politiche. E quelle scelte possono essere cambiate.
Oggi, con la diffusione di zone 30, strade scolastiche, piste ciclabili e progetti di urbanismo tattico, molte città stanno riscoprendo una verità fondamentale: la vera sicurezza nasce quando lo spazio pubblico torna a essere progettato a misura di persona, e non solo di veicolo. Conoscere la storia del “jaywalking” ci insegna quanto la lingua, le regole e il design possano spostare la bilancia del potere. Una lezione potente: il “crimine” non è nato da un gesto, ma da una nuova definizione. E a volte, per cambiare il mondo, è sufficiente cambiare il nome delle cose.
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