Immagina una flotta romana pronta a salpare. I rematori sono ai loro posti, gli ufficiali impartiscono ordini secchi, gli scafi scuri brillano di pece. Prima di levare l’ancora, però, l’attenzione di tutti è catturata da una semplice gabbia di polli. Sembra un dettaglio assurdo, ma per la Roma antica era un rituale sacro: prima di ogni battaglia, si doveva interrogare il volere degli dei. E per l’esercito, il metro del favore divino erano proprio loro, i polli sacri.
Il rito, chiamato auspicio, era semplice quanto solenne. Un sacerdote specializzato, il pullarius, offriva del grano ai volatili. Se questi mangiavano con voracità, lasciando cadere briciole dal becco (il cosiddetto tripudium), il presagio era favorevole. Via libera. Se, al contrario, rifiutavano il cibo, era un avvertimento divino: fermarsi era un obbligo. Non era semplice superstizione. Per i Romani, rispettare il rito significava dimostrare che lo Stato agiva in armonia con gli dei, dando una legittimità morale e politica a ogni decisione.
La storia dei polli più celebri di Roma esplode nel 249 a.C., nel pieno della Prima guerra punica. Il console Publio Claudio Pulcro è al comando della flotta e si prepara a un attacco a sorpresa contro le navi di Cartagine nel porto di Drepana, l’odierna Trapani in Sicilia. L’obiettivo è infliggere un colpo mortale al nemico. Come da prassi, vengono portati i polli sacri. Sulla tolda della nave ammiraglia cala un silenzio di piombo. I polli non toccano cibo. Il presagio è terribile, inequivocabile. Ma Pulcro è un uomo impaziente e arrogante. Furioso, afferra la gabbia e, con un gesto di sfida, la scaglia in mare gridando la frase passata alla storia: “Se non vogliono mangiare, che bevano!”.
Dà l’ordine di attaccare comunque. È l’inizio di una delle disfatte più umilianti della storia navale romana. I Cartaginesi, guidati dall’ammiraglio Adherbal, non si fanno sorprendere. Escono dal porto in formazione perfetta, sfruttando la loro superiorità tattica e la maggiore agilità delle loro navi. La flotta romana, pesante e disordinata, viene intrappolata tra la costa e il nemico, incapace di manovrare. È un massacro. La battaglia si conclude con una disfatta totale: oltre 90 navi romane vengono catturate o affondate. Per Roma è un’umiliazione cocente.
Cosa andò storto? Al di là della superiore abilità marinara dei Cartaginesi, il fattore decisivo fu psicologico. Ignorare un auspicio così negativo non era solo un’offesa agli dei: era un colpo mortale al morale dei soldati. Un’armata che parte per la battaglia convinta di avere gli dei contro è un’armata già sconfitta. La fiducia svanisce, la coesione si sgretola, la paura prende il sopravvento. In guerra, questi elementi pesano quanto le armi.
Pulcro fu processato a Roma non tanto per la sconfitta militare, ma per la sua empietà, per aver disprezzato i riti che tenevano insieme la Repubblica. La sua vicenda divenne un monito eterno: le regole condivise, anche quelle che oggi appaiono bizzarre, sono la colla che tiene unito un gruppo. Infrangerle per arroganza rende fragili proprio quando serve la massima forza.
Ma perché proprio i polli? Nel mondo romano si cercavano segni divini ovunque: nel volo degli uccelli, nei fulmini, nelle viscere degli animali sacrificati. In campagna militare, però, serviva un sistema pratico, rapido e replicabile. I polli sacri erano la soluzione perfetta: facili da trasportare e nutrire, il loro comportamento era un segnale immediato, un linguaggio codificato tra uomini e dei.
La storia di Pulcro non racconta solo di un popolo superstizioso. Descrive una civiltà complessa, dove religione, disciplina militare e politica erano fuse insieme. Quell’atto di superbia dimostra che sottovalutare ciò che unisce una comunità — che siano riti, valori o semplici regole — ha un costo altissimo. I polli di Drepana, con il loro silenzioso rifiuto, lo hanno ricordato a Roma e al mondo per sempre.
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