È una notte gelida del gennaio 1961, in pieno culmine della Guerra Fredda. Un bombardiere B-52 dell’aviazione americana solca i cieli della Carolina del Nord, parte di un pattugliamento di routine per garantire la deterrenza nucleare. A bordo, oltre all’equipaggio, ci sono due passeggeri silenziosi e letali. Ma quella notte, il fragile equilibrio del terrore sta per spezzarsi. Un’avaria improvvisa, una catastrofica perdita di carburante, indebolisce l’ala destra del gigante d’acciaio. La struttura cede di schianto e l’aereo si disintegra in volo. Mentre l’equipaggio lotta disperatamente per la vita, lanciandosi nel vuoto, i due ordigni precipitano verso i campi umidi vicino alla cittadina di Faro.
Non sono bombe ordinarie. Sono due Mark 39, bombe termonucleari all’idrogeno, ognuna con una potenza stimata tra i 3 e i 4 megatoni. Per dare un’idea, si tratta di una forza distruttiva fino a 260 volte superiore a quella di Hiroshima. Il primo ordigno si schianta al suolo ad altissima velocità e si disintegra parzialmente, spargendo i suoi componenti. Il secondo, invece, innesca uno scenario da incubo: il suo paracadute si apre perfettamente, rallentando la caduta proprio come previsto in caso di attacco. La bomba è progettata per “pensare” e, in quel momento, “pensa” di essere stata sganciata su un bersaglio nemico. Inizia la sequenza di attivazione.
Un’arma nucleare non esplode con un solo comando, ma al termine di una catena di sicurezza: una serie di condizioni che devono verificarsi nell’ordine corretto. È come una cassaforte con più serrature. Quella notte, una dopo l’altra, le serrature scattarono. L’altimetro, i sensori di decelerazione, i circuiti elettrici: tutto funzionava alla perfezione, portando la bomba sempre più vicina al punto di non ritorno. Mancava solo l’ultimo, fatidico passaggio. A un passo dalla fine, a separare la Carolina del Nord da un inferno nucleare, c’era un solo, banale interruttore a bassissima tensione. E quell’interruttore, per pura fortuna, non scattò. Un rapporto declassificato anni dopo confermerà che ben sei dei sette sistemi di sicurezza avevano fallito, lasciando la detonazione nelle mani di quel singolo, fragile componente.
Le conseguenze sarebbero state inimmaginabili. Un’esplosione da 4 megatoni avrebbe polverizzato ogni cosa in un raggio di chilometri, creando un’onda d’urto devastante e un cratere enorme. Ma il vero disastro sarebbe stato il fallout radioattivo. Trascinato dai venti, avrebbe contaminato l’intera costa orientale degli Stati Uniti, investendo città come Washington, Filadelfia e New York. Si sarebbe trattato di una catastrofe con milioni di vittime potenziali, un colpo mortale per la nazione che avrebbe rischiato di autodistruggersi e cambiare per sempre il corso della storia.
Invece, la storia andò diversamente. Le squadre di soccorso sigillarono l’area, bonificando il terreno e recuperando i frammenti. Ma c’è un segreto che quel campo custodisce ancora oggi. Una parte fondamentale di una delle bombe, contenente uranio, non è mai stata recuperata. Giace ancora sepolta a decine di metri di profondità, un monito silenzioso sorvegliato da un vincolo perpetuo che vieta qualsiasi scavo.
L’incidente, classificato con il nome in codice Broken Arrow, costrinse gli ingegneri a ripensare radicalmente i sistemi di sicurezza. Furono introdotti meccanismi più robusti e ridondanti, capaci di distinguere un guasto da un vero ordine di attacco. Quella notte del 1961 ci ha lasciato un’eredità indelebile e un paradosso da brividi: la linea che separa la nostra normalità da una catastrofe globale può essere sottile come il filo di un interruttore che, per puro, incredibile caso, decide di non funzionare.
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