Una commovente storia sulla sindrome della vita posticipata

La maggior parte delle persone ha l’abitudine di posticipare tutte le cose belle e gradevoli per un secondo momento. E se quell’occasione speciale, della quale abbiamo portato il grado di importanza fino al limite, non dovesse mai arrivare? Di questo argomento parla la commovente storia della scrittrice Olga Saveljeva che puoi trovare di seguito.

Probabilmente, questa storia sincera potrebbe ricordarti in cosa consiste realmente la vita.

Nel comò di mia madre c’erano delle cose di cristallo.

Insalatiere, ciotole, bicchieri.

Pesanti e poco pratici.

E anche delle porcellane.

Belle, con dei delicati disegni di farfalle e uccellini.

Si trattava di un set da 12 piatti, tazze da tè e diverse altre cose.

Mamma lo aveva comprato molti anni prima, dopo aver fatto una lunga fila al negozio.

È stato un vero affare!“, ripeteva sempre.

Quando avevamo degli ospiti io mettevo una tovaglia sulla tavola. Bianca come la neve.

La tovaglia richiedeva l’eleganza della porcellana.

“Posso mamma?”, le chiedevo.

“No, sono per gli ospiti!”, mi rispondeva lei.

“Però oggi abbiamo degli ospiti!”, le dicevo.

“Che ospiti saranno mai questi? I vicini e la zia Paola”, ribadiva lei.

Così capii che per fare in modo che le porcellane potessero uscire dal comò sarebbe dovuta venire la regina d’Inghilterra in persona. Avrebbe dovuto lasciare la sua amata patria e venire a trovare mia madre.

Una volta era un’abitudine comprare qualcosa per poi aspettare l’inizio della vita vera.

Quello che succedeva in quel momento non contava.

Che tipo di vita era quella?

Pura sopravvivenza.

Pochi soldi, poca allegria, molti problemi.

La vita vera sarebbe cominciata solamente dopo.

Così, all’improvviso.

Poi avremmo mangiato la zuppa dalle ciotole di cristallo e avremmo bevuto il tè dalle tazze di porcellana.

Ma non oggi.

Quando mia madre si ammalò, praticamente smise di uscire di casa. Si muoveva con una sedia a rotelle o camminava con l’aiuto di una stampella, appoggiandosi al braccio del proprio accompagnatore.

“Portami al mercato”, mi disse un giorno.

“Di cosa hai bisogno?”, le chiesi.

Negli ultimi anni andavo sempre io a comprare i vestiti per mia madre e avevo sempre indovinato i suoi gusti.

Tuttavia, non mi piaceva comprare delle cose per lei, avevamo dei gusti molto diversi. Quello che a me non piaceva, sicuramente a lei sarebbe piaciuto.

Per questo era una specie di antiacquisto: dovevo scegliere qualcosa che non mi sarei mai comprata e per mia madre sarebbe stato perfetto.

“Ho bisogno di indumenti intimi nuovi, sono dimagrita”, mi disse.

Mia madre aveva una bella figura, però complicata: fianchi stretti e seno abbondante, era impossibile sceglierle la biancheria intima ad occhio.

Così andammo insieme al negozio.

Era in un centro commerciale, vicino all’entrata, al piano terra.

Ci mettemmo circa quaranta minuti per andare dall’auto, che era parcheggiata all’ingresso, fino al negozio. Lei faceva molta fatica a camminare.

Arrivammo. Scegliemmo. Provammo.

“È molto caro qui e non si può contrattare il prezzo, andiamo in un altro posto!”, disse mamma.

“Compriamo qui, pago io. È l’unico negozio nel quale puoi arrivare a piedi”, le risposi.

Mamma si rese conto che avevo ragione e non discusse con me.

Scelse il suo intimo.

“Quanto costa?”, mi chiese.

“Non importa”, le dissi.

“Sì che importa, devo saperlo!”, mi rispose.

Mamma era una fanatica del controllo. Doveva convincersi di prendere in modo autonomo la decisione sull’acquisto.

“75 euro!”, esclamò la commessa.

“75 euro per delle mutande?”, rispose mia madre sorpresa.

“Si tratta di un completo della nuova collezione…”, disse la commessa.

“Però cosa importa, nemmeno si vedono, vanno sotto ai vestiti!”, disse indignata mia madre.

Feci l’occhiolino alla commessa e mi sforzai per farle capire di mentirle.

“Oh, non avevo visto la virgola! Il compelto costa 7,50 euro”, disse la commessa quando capì il mio segnale.

“Mi sembrava strano, non dovrebbe costare più di 5 euro, però siamo stanche. Può farci uno sconto?”, disse mia madre.

“Mamma è un negozio. I prezzi sono fissi, non è un mercato!”, esclamai.

Pagai con la carta di credito così che mia madre non vedesse la quantità di banconote. In seguito afferrai lo scontrino per non farle vedere che lì non c’era nessuna virgola.

Salutammo e tornammo in auto.

“È bello il completo. Elegante. Le ho detto di proposito che non mi piaceva, per non mostrare interesse. Magari ci abbassava un poco il prezzo. Non mostrare mai ad un venditore che il prodotto ti piace. Se lo farai, sarai in suo potere”, mi disse.

“D’accordo!”, le risposi.

“E contratta sempre, a volte abbassano il prezzo”, continuò lei.

“D’accordo”, le risposi.

Per tutta la mia vita ho ricevuto dei consigli che non sono applicabili nel mondo attuale.

Io li chiamo cercapersone.

Esistono, però nell’era dei cellulari non servono più.

Una volta suonarono il campanello a casa di mia mamma. Lei ci mise molto, molto tempo per arrivare alla porta. Però dall’altra parte c’era un giovane paziente e con un bel sorriso.

Vendeva coltelli.

Mamma lo lasciò entrare.

Una pensionata che riusciva appena a camminare lasciò entrare in casa un giovane muscoloso con dei coltelli. Meglio che non commmento.

Il ragazzo le parlò dell’acciaio e delle lame.

“E io che vivo qui sola non ho mai un coltello affilato in casa”, si lamentò lei.

Mostrò interesse. Anche se lei stessa diceva di non farlo.

Era un piccolo spettacolo. Nella vita di mamma c’erano stati pochi spettacoli. In TV, sì, ce n’erano molti, però ora ce n’era uno dal vivo.

Il giovane non vendeva coltelli. Vendeva spettacoli. E riuscì a venderli.

Disse il prezzo. Normalmente sarebbero stati 75 euro, però solo per quel giorno sarebbero costati solamente 30 euro. Più un libro di ricette in regalo.

E un libro di ricette in regalo“, pensò mamma, che nella sua vita non aveva mai seguito una ricetta, lei assaggiava e sapeva quale ingrediente bisognava aggiungere.

Mamma lo sapeva, doveva comprare quei coltelli.

E li comprò.

La sua pensione era molto bassa e se si fosse dovuta arrangiare da sola avrebbe potuto pagare solamente le bollette e un po’ di pane.

Senza medicine, senza intimo e senza coltelli.

Però siccome le bollette, le medicine, il cibo ed i vestiti li pagavo io, la sua pensione le permetteva di sentirsi indipendente.

Il giorno dopo andai a trovarla.

Lei cominciò a mostrarmi i coltelli, mi raccontò dell’acciaio e di quanto fossero belli.

Sapevo bene che quei coltelli erano come tutti gli altri e che non avevano nulla di speciale, però feci finta di nulla.

A lei piaceva prendere delle decisioni e non voleva che queste fossero messe in discussione.

“E ora dove li porti questi coltelli? Lasciali in cucina!”, le dissi.

“Ma come ti viene in mente? Sono da regalare. Nel caso dovessi andare all’ospedale, per qualche medico. O se devo ringraziare qualcuno”, mi rispose.

Ed eccoci ancora una volta. Un’altra volta il meglio non era per se stessi, era per qualcun altro. Qualcuno più degno, qualcuno che già oggi sta vivendo davvero, che non aspetta.

Anche io ho ereditato questa abitudine assurda: aspettare al posto di vivere.

Poco tempo fa hanno regalato a mia figlia una bambola molto cara. Sulla confezione c’è scritto “Principessa”. Ha un vestito davvero molto bello, una corona e una bacchetta magica.

Mia figlia ha un anno e mezzo e trascina le sue altre bambole sul pavimento, le prende per i capelli o per le gambe. E una volta è quasi riuscita a cuocere la sua bambola preferita nel microonde.

Così, ho nascosto la sua nuova bambola. Dopo, tra un po’ di tempo, quando finiremo di dipingere l’appartamento, quando la piccola crescerà un po’ e quando arriverà la vita vera, solo allora le darò la sua principessa. Oggi no.

Però ritorniamo alla mamma e ai suoi coltelli.

Quando mamma andò a dormire, aprii la valigetta e afferrai il primo coltello che vidi. Era bello, con un elegante manico azzurro.

Presi dal frigo un pezzo di formaggio duro e cercai di tagliarlo. La lama rimase incastrata nel formaggio e il manico nella mia mano.

Elegante, azzurro.

Nemmeno fossero di plastica“, pensai.

Lavai il coltello, sistemai il manico e lo rimisi nella valigetta, la chiusi e la riposi al suo posto.

Chiaramente, non dissi nulla a mia mamma.

Poi aprii il libro di ricette. Aveva le pagine in disordine. L’inizio di una ricetta era di una torta e la fine di un secondo piatto.

Svergognati che imbrogliano i pensionati, come vivono con la loro coscienza?

In dicembre, prima della fine dell’anno, mamma si sentiva meglio. Ritornò ad essere più allegra e cominciò a ridere più spesso.

Le sue risate mi ispiravano.

Per le feste, le regalai una bella blusa bianca con una scollatura discreta e delicata, disegnata per risaltare il suo bel seno, con un colletto bordato con dei bottoncini ordinati.

Mi piaceva quella blusa.

“Grazie!”, mi disse. E la ripose nell’armadio.

“Te la metterai per la cena dell’ultimo dell’anno?”, le chiesi.

“No, perché? Potrei macchiarla. La userò in seguito, quando dovrò andare da qualche parte”, mi rispose.

Chiaramente non le era piaciuta. Mamma amava i colori brillanti e luminosi.

O forse, al contrario, le era piaciuta molto.

Mamma mi aveva raccontato di quanto le piacesse vestirsi quando era giovane. Però non aveva nè abiti, nè soldi per comprarli.

Aveva una blusa bianca e un sacco di foulard per il collo.

Cambiava i foulard, legandoli ogni volta in un modo diverso e grazie a questo aveva una buona reputazione con la disegnatrice di moda della fabbrica in cui lavorava.

Insieme alla sua blusa di Natale, le regalai anche dei foulard. Pensai che così le avrei regalato un po’ della sua gioventù.

Però lei conservò anche la gioventù per dopo.

In realtà tutta la sua generazione lo ha fatto.

Ha messo da parte la gioventù per la vecchiaia.

Per dopo.

Un’altra volta dopo. Tutto il meglio per dopo. E anche quando è evidente che il meglio è rimasto nel passato, rimane sempre per dopo.

La sindrome della vita posticipata.

Mamma è morta all’improvviso.

All’inizio di gennaio.

Quel giorno dovevamo andare a trovarla con tutta la famiglia, ma non arrivammo in tempo.

Ero stordita. Confusa.

Non riuscivo a ricompormi.

O piangevo senza controllo. O ero imperturbabile come un carro armato.

Era come se non riuscissi a rendermi conto di ciò che stava accadendo.

Andai all’obitorio per ritirare il certificato di morte.

Poi andai in un’agenzia di pompe funebri che si trovava lì vicino.

Indicai, senza vedere, foto di bare, di cuscini in raso, di ghirlande funebri e altre cose. Il dipendente continuava a sommare con una calcolatrice.

“Che taglia aveva la defunta?”, mi chiese il dipendente dell’agenzia.

“Cinquanta, Ovvero, sopra 50, per il seno grande e sotto…”, iniziai per qualche motivo a rispondergli con dei dettagli irrilevanti.

“Non c’è problema. Qui abbiamo un completo pronto per il suo ultimo viaggio. Potremmo anche usare una taglia 52. C’è un abito, delle pantofole, indumenti intimi…”, mi spiegò l’uomo.

Capii che era l’ultima volta che avrei comprato degli abiti per mia madre.

E mi allontanai piangendo.

“Non le piace?”, disse l’uomo che malinterpretò le mie lacrime, perché un minuto prima ero tranquilla, calma e in un attimo ero diventata isterica.

“In realtà la copriremo con una coperta di raso come questa, con una preghiera ricamata sopra”, continuò il dipendente dell’agenzia funebre.

“Questo andrà bene, lo prendo”, risposi.

Pagai le cose di cui mia madre aveva bisogno per il giorno del funerale e andai nel suo appartamento vuoto.

Dovevo trovare la sua rubrica telefonica e chiamare i suoi amici per invitarli al funerale.

Entrai in casa e rimasi per molto tempo seduta nella sua camera da letto, ascoltando in sienzio.

Mi chiamò mio marito, era preoccupato. Però io non riuscivo a rispondere perché avevo un enorme nodo in gola.

Misi la mano in tasca per prendere il telefono e per scrivergli un messaggio e, all’improvvisso, senza nessuna spiegazione, l’anta dell’armadio si aprì da sola. Un mistero.

Mi avvicinai. Lì c’erano le lenzuola, gli asciugamani e le tovaglie della mamma.

Sopra c’era un pacchetto con un bigliettino sul quale c’era scritto: “Per quando muoio”.

Lo aprii e guardai dentro.

Lì c’era il mio regalo. La blusa bianca di Natale. Delle pantofole bianche a forma di mocassini e un completo intimo. Quel famoso completo dei 75 euro.

Vidi che sul reggiseno era rimasta l’etichetta con il prezzo. Alla fine mamma aveva scoperto lo stesso quanto costava.

E lo mise da parte per dopo.

Per un giorno migliore.

A quanto pare questo giorno era arrivato.

Il suo giorno migliore.

E avrebbe cominciato un’altra vita.

Forse la vita vera.

Ora finirò di scrivere questo testo, asciugherò le lacrime dal mio viso e darò a mia figlia la sua principessa.

Che la trascini per il pavimento, che le sporchi il vestito, che perda la sua corona.

Ma almeno vivrà in tempo.

La vita vera è oggi stesso.

La vita vera è quella che è piena di allegria. Solo che non dobbiamo aspettare che sia l’allegria ad arrivare, ma dobbiamo essere noi stessi a crearla.

I miei figli non avranno nessuna sindrome della vita posticipata.

Perché ognuno dei giorni della loro vita presente sarà il migliore.

Impariamolo insieme: vivere oggi.

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