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La misteriosa epidemia di danza del 1518 a Strasburgo che fece ballare fino alla morte

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Immagina una calda mattina d’estate del 1518, a Strasburgo, allora parte del Sacro Romano Impero. Una donna, ricordata come Frau Troffea, entra in strada e comincia a ballare. Non per festa, non per divertimento. Balla senza musica, senza spiegazione, senza fermarsi. Continua per ore, poi tutta la notte, e ancora il giorno dopo. In poche ore la curiosità dei passanti diventa stupore, poi inquietudine: altre persone si uniscono, come trascinate da una forza invisibile. Nel giro di una settimana sono decine; in poche settimane, secondo le cronache, diventano centinaia. Ballano fino allo sfinimento. Alcuni crollano per la fatica, altri muoiono per infarto, ictus, disidratazione. La città è sconvolta: cosa sta accadendo?

L’episodio è passato alla storia come la Dancing Plague del 1518, l’epidemia di danza. Non si tratta di un mito: i registri del consiglio cittadino di Strasburgo documentano ordinanze, spese e interventi per affrontare la crisi. A luglio iniziò la “danza senza fine”; ad agosto raggiunse il picco; a settembre si spense lentamente. Le cifre esatte restano incerte, ma l’immagine è indelebile: un’intera comunità vittima di un comportamento collettivo fuori controllo.

Perché accadde? Le spiegazioni principali sono tre.

La prima ipotesi è l’avvelenamento da ergot (Claviceps purpurea), un fungo della segale. L’ergot produce sostanze che provocano allucinazioni, spasmi e convulsioni. In anni di raccolti scarsi, come quelli che precedettero il 1518, il rischio di pane contaminato era reale. Questa teoria spiega il delirio, ma ha punti deboli: l’ergot provoca crampi dolorosi e rigidità, non una danza prolungata; inoltre un avvelenamento diffuso colpirebbe zone più ampie, non solo un quartiere con un apparente andamento “a contagio sociale”.

La seconda ipotesi è l’isteria di massa, oggi definita sindrome psicogena collettiva. Strasburgo viveva anni duri: carestie, epidemie, tasse pesanti, tensione religiosa. Molti temevano maledizioni e cercavano protezione in santi come San Vito, associato a movimenti involontari. In un clima così teso, un singolo episodio può generare imitazione e trance collettiva, soprattutto se interpretato attraverso un linguaggio religioso. Stress, suggestione e paura possono sincronizzare comportamenti fino a renderli incontrollabili.

La terza ipotesi riguarda lo stress post-carestia e il trauma sociale. Dopo anni di privazioni, corpi debilitati e menti provate dall’ansia possono reagire con crisi motorie come scarica emotiva e fisica. Il caldo estivo, la disidratazione e la cattiva alimentazione avrebbero trasformato quella crisi in una spirale pericolosa.

Ancora più sorprendente fu la risposta delle autorità. I medici, convinti che si trattasse di una malattia del “sangue caldo”, proposero una cura estrema: far ballare i malati ancora di più per “bruciare” l’eccesso. Il consiglio cittadino allestì sale pubbliche e palchi, ingaggiando musicisti. Così, invece di fermarla, alimentarono l’epidemia. Quando i collassi e le morti aumentarono, la città cambiò strategia: vietò la musica e i balli in pubblico, organizzando processioni verso il santuario di San Vito a Saverne. Qui, i malati ricevevano rituali e benedizioni; alcuni indossavano scarpe rosse consacrate e venivano aspersi con acqua benedetta. Poco a poco, la crisi rallentò.

La Dancing Plague del 1518 ci ricorda una verità senza tempo: mente e corpo sono legati da fili invisibili, e la società può amplificarli nel bene e nel male. Tra funghi allucinogeni e paure collettive, tra cure sbagliate e fede, vediamo quanto il contesto culturale plasmi i sintomi e le soluzioni. Non sappiamo se morirono decine o centinaia di persone; sappiamo che l’evento fu reale e devastante. In condizioni estreme, le reazioni umane possono diventare contagiose quanto un virus, trasformando una città in un palcoscenico di trance e tragica resistenza.

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