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La Grande Siepe dell’India: la Colossale Barriera di Spine che Divise un Paese

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Immagina un confine non di pietra o filo spinato, ma vivente. Un muro di rami intrecciati, foglie coriacee e spine così fitte da essere impenetrabile per uomini, animali e carri. Nel cuore dell’India del XIX secolo, questa barriera spaventosa è esistita davvero. Fu creata dall’amministrazione coloniale britannica per una ragione tanto semplice quanto spietata: fermare il contrabbando di sale e riscuotere una tassa che gravava su ogni singola famiglia.

Il suo nome ufficiale era Inland Customs Line, la linea doganale interna. In alcuni tratti era un semplice fossato, in altri una palizzata di legno, ma nella sua forma più impressionante era una siepe viva, un mostro vegetale che oggi conosciamo come la Grande Siepe dell’India. Alta in certi punti oltre 3 metri, si snodava per quasi 4.000 chilometri, tagliando in due il subcontinente da ovest a est. Lungo questa cicatrice verde, una forza di oltre 14.000 uomini tra guardie e doganieri pattugliava giorno e notte, bloccando chiunque tentasse di passare senza pagare il dazio.

Ma perché il sale? In un clima torrido e umido come quello indiano, non era un lusso, ma un elemento essenziale per la sopravvivenza: indispensabile per conservare il cibo, reintegrare i minerali persi con il sudore e mantenere in salute il bestiame. Tassarlo pesantemente garantiva entrate sicure e costanti allo Stato coloniale. Il prezzo artificialmente alto, però, spingeva migliaia di persone a contrabbandare il sale dalle zone costiere, dove si produceva a basso costo. Da qui nacque l’idea di una barriera insormontabile nel cuore del paese per bloccare ogni via di terra.

Costruire un muro di mattoni per migliaia di chilometri era un’impresa folle e insostenibile. Una siepe, invece, aveva un vantaggio unico: poteva crescere, infoltirsi e “autoripararsi”. Con meticolosa pianificazione, gli inglesi sperimentarono un vero e proprio arsenale botanico: acacie spinose, giuggioli indiani, carissa e persino file di cactus. Le piante venivano scelte per la loro resistenza e per le spine uncinate, capaci di aggrapparsi a vestiti e pelle. Mantenerla era un lavoro immane e continuo: si piantava, si potava, si irrigava e si sostituivano le parti morte, in una lotta senza fine contro la siccità e i monsoni.

La linea non era solo un ostacolo fisico, ma un sistema di controllo capillare. Esistevano posti di controllo ufficiali dove i mercanti dovevano esibire le ricevute dei dazi. Carovane e semplici villaggi dovettero imparare a convivere con questa cicatrice sul territorio, che spesso allungava i viaggi di giorni. I contrabbandieri non si arrendevano: tentavano di aprire varchi di notte, di passare in zone paludose o di corrompere le guardie. Ma il rischio di rimanere intrappolati in un groviglio di spine era altissimo, e le pattuglie erano implacabili.

Eppure, di questa impresa colossale, oggi non resta quasi nulla. Perché? In parte, perché essendo viva, la siepe era destinata a morire. Dagli anni ’70 dell’Ottocento, le politiche fiscali cambiarono, l’arrivo delle ferrovie rivoluzionò i trasporti e mantenere una barriera vegetale così estesa divenne troppo costoso e inefficiente. La linea fu abbandonata, le piante tagliate per far spazio a campi e strade, e la natura si riprese ciò che era suo.

C’è anche una ragione simbolica. Quando nel 1930 Gandhi guidò la sua celebre Marcia del Sale per protestare contro l’ingiusta tassa, creò un simbolo di resistenza che sarebbe entrato nella storia. Quell’atto di disobbedienza civile divenne immortale, mentre la siepe, già svanita da decenni, sprofondò nell’oblio, una nota a piè di pagina dimenticata.

Eppure, il muro di spine dell’India resta una lezione potente. Ci ricorda come la burocrazia, la logistica e la geografia possano plasmare la vita delle persone in modi inimmaginabili. Dimostra la creatività, a volte brutale, con cui gli imperi hanno sempre cercato di controllare popoli e merci: non solo con fortezze e cannoni, ma anche con un’arma silenziosa e viva, fatta di foglie e spine. Una storia che sembra quasi fantasia, e che invece ci insegna che i muri più efficaci non sono sempre quelli di pietra.

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