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Il Turco Meccanico del 1770 che Ingannò il Mondo e Batté Napoleone a Scacchi

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Immagina di essere in una sala illuminata da candele nel 1770. Al centro della stanza, un manichino vestito con turbante e abiti orientaleggianti siede davanti a una scacchiera. L’inventore presenta al pubblico la sua incredibile creazione: una macchina capace di giocare a scacchi in totale autonomia. La folla trattiene il respiro. Il Turco Meccanico, con un gesto fluido, muove il suo primo pezzo. Risponde agli attacchi, elabora strategie e, infine, vince. Non contro un avversario qualunque: le cronache dell’epoca narrano che tra i suoi sfidanti vi furono giganti della storia come Napoleone Bonaparte e Benjamin Franklin. E molto spesso, era la “macchina” a uscire vittoriosa.

Il Turco Meccanico nacque a Vienna nel 1770 dalla mente geniale di Wolfgang von Kempelen, un inventore che voleva stupire la corte dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Presentato come un vero e proprio automa, era composto da un mobile in legno pieno di sportelli, con una scacchiera incastonata sulla parte superiore. Dietro di essa, il manichino del “Turco” muoveva i pezzi con il suo braccio meccanico. Prima di ogni partita, Kempelen inscenava un rito: apriva gli sportelli per mostrare un groviglio di ingranaggi, molle e ruote dentate, come a dimostrare l’assenza di un operatore umano. Era un magistrale colpo di teatro. La macchina emetteva un leggero ronzio, il Turco si inchinava e la sfida aveva inizio.

Per oltre ottant’anni, questa meraviglia viaggiò attraverso l’Europa e l’America, cambiando proprietario fino a quando l’imprenditore Johann Nepomuk Mälzel ne fece un’attrazione da palcoscenico. La sua fama crebbe a dismisura. Si racconta che Napoleone, frustrato, tentò di barare con una mossa irregolare, ma il Turco, quasi “sdegnato”, scosse la testa e rimise il pezzo al suo posto. Benjamin Franklin, da uomo di scienza, ne rimase completamente affascinato e, si dice, fu uno dei tanti illustri sconfitti. Il sogno di una macchina pensante sembrava diventato realtà.

Ma il vero prodigio non risiedeva negli ingranaggi, bensì in una straordinaria forma di illusionismo. Il Turco Meccanico non era un robot: al suo interno si nascondeva un abilissimo scacchista umano. Kempelen aveva progettato il mobile come un labirinto di pannelli scorrevoli e scomparti segreti. Quando apriva gli sportelli per l’ispezione, l’operatore nascosto si spostava agilmente da una parte all’altra, rimanendo sempre invisibile agli occhi del pubblico. L’uso di specchi, doppi fondi e persino il fumo delle candele, che mascherava odori e respiro, rendeva l’inganno perfetto.

Come faceva il pilota a vedere la partita? Sotto ogni pezzo della scacchiera era posto un piccolo magnete. Quando un pezzo veniva mosso, un indicatore metallico corrispondente si muoveva sotto la scacchiera, segnalando la mossa al giocatore nascosto. Quest’ultimo, utilizzando un complesso sistema di leve collegate a un braccio meccanico a pantografo, guidava la mano del Turco per afferrare i pezzi e posizionarli con precisione millimetrica. L’automa poteva persino annuire per annunciare lo scacco o scuotere la testa di fronte a una mossa non valida, rendendo l’illusione ancora più potente.

L’identità degli scacchisti che si celarono all’interno del Turco cambiò nel corso degli anni. Si trattava sempre di maestri di scacchi, come il famoso William Schlumberger durante il tour americano. Nonostante i sospetti, l’inganno resse per decenni, tanto che nel 1836 il celebre scrittore Edgar Allan Poe dedicò al caso un saggio intitolato “Il giocatore di scacchi di Maelzel”, in cui analizzava punto per punto perché dovesse trattarsi di un trucco guidato da un essere umano. Eppure, il mistero continuava ad affascinare tutti.

La storia del Turco Meccanico si concluse tragicamente nel 1854, quando fu distrutto da un incendio a Filadelfia. La sua eredità, però, è immensa. Per generazioni ha nutrito l’immaginario collettivo, precorrendo l’idea di intelligenza artificiale e dimostrando quanto siamo disposti a credere alla magia quando lo spettacolo è ben orchestrato. Il suo nome è rimasto un simbolo: ancora oggi, l’espressione “Turco Meccanico” si usa per descrivere quei sistemi che, dietro una facciata di automazione, nascondono in realtà un indispensabile lavoro umano. Non era una macchina che pensava, ma una geniale macchina che faceva pensare, insegnandoci che il confine tra tecnologia e illusione è, da sempre, un palcoscenico per la meraviglia.

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