Immagina la Russia alla fine del Seicento: un impero sconfinato, orgoglioso ma isolato. A guidarlo c’era uno zar diverso da tutti gli altri, Pietro il Grande. Quest’uomo, un gigante di più di due metri, aveva appena concluso un viaggio epocale in Europa, in incognito. Non cercava lusso, ma conoscenza: cantieri navali, eserciti, scienze e costumi. Tornato in patria, aveva una missione chiara e ossessiva: trasformare la Russia in una potenza “moderna” sul modello occidentale. Ma il suo primo ostacolo non fu un esercito nemico, ma qualcosa di molto più personale e radicato: la barba.
Nella tradizione ortodossa russa, la barba era sacra. Era il simbolo della dignità virile, della devozione a Dio e del rispetto per gli antenati. I nobili, i potenti boyar, la portavano lunga e fluente, un segno del loro status e della loro fede. Per Pietro, invece, quelle barbe erano il simbolo vivente del passato, di una chiusura mentale che andava estirpata. E quando lo zar decideva qualcosa, lo faceva in un modo che nessuno avrebbe potuto ignorare.
Il decreto arrivò come un fulmine a ciel sereno. Chiunque volesse mantenere la propria barba doveva pagare una tassa. Non era un invito, ma un ordine perentorio. Le tariffe erano studiate per colpire ogni ceto sociale: cifre altissime per i nobili e i ricchi mercanti, importi inferiori per i cittadini comuni, e una piccola somma simbolica richiesta ai contadini solo quando entravano in città. In cambio del pagamento, si riceveva un gettone di metallo, una sorta di “patente per la barba” da portare sempre con sé. Su questi gettoni era incisa l’aquila bicipite dello Stato e frasi come “La tassa è stata pagata”. Se una guardia ti fermava e non mostravi il tuo gettone, il rasoio dello Stato era pronto a entrare in azione.
Ma Pietro non si limitò a firmare una legge. Voleva che il messaggio fosse impresso a fuoco nella mente dei suoi sudditi. Per questo, trasformò la rasatura in uno spettacolo pubblico. Durante sontuosi banchetti di corte, tra fiumi di vodka e musica, lo zar in persona tirava fuori un enorme rasoio da barbiere e, tra lo shock generale, afferrava i nobili più tradizionalisti e tagliava di netto le loro amate barbe. Era una performance pubblica di potere e umiliazione, un modo brutale e teatrale per dire: la vecchia Russia viene tagliata via, ora si costruisce quella nuova.
Dietro questa mossa apparentemente bizzarra c’era una strategia lucidissima. Per modernizzare un paese non bastano le leggi, bisogna cambiarne i simboli, la mentalità, il volto stesso. La barba era il bersaglio perfetto: visibile, personale e carico di significato. Pietro fece lo stesso con l’abbigliamento, imponendo abiti all’europea e vietando le lunghe vesti tradizionali. La tassa, inoltre, trasformava la riforma in un affare di Stato: pagare per la propria barba significava ammettere che il potere poteva decidere fin sul tuo viso.
Naturalmente, la reazione fu forte. Molti vissero l’imposizione come una violenza contro la fede e la tradizione, un vero e proprio sacrilegio. I più religiosi vedevano nel gesto dello zar un’offesa a Dio. Ma la Russia di Pietro era un cantiere a cielo aperto che correva a ritmo forsennato: si stava costruendo dal nulla una nuova capitale, San Pietroburgo, e si riformavano l’esercito e l’amministrazione. In quel vortice di cambiamenti, anche le barbe dovettero cedere il passo.
Oggi, i gettoni della barba sono piccoli testimoni silenziosi di un’epoca incredibile. Conservati nei musei, raccontano la storia di un esperimento sociale audace, la prova tangibile di come lo Stato potesse legiferare sull’aspetto dei suoi cittadini. Sono il ricordo di un momento in cui il potere ha usato il corpo umano come un manifesto politico per forzare una trasformazione culturale. Col tempo, la legge si allentò e la scelta di radersi divenne più libera, ma quella tassa rimane uno degli esempi più vividi della personalità di Pietro il Grande: un sovrano che, per trascinare la Russia nella modernità, fu disposto a cambiare tutto, persino la faccia dei suoi sudditi. E ci dimostra come, nelle mani di un leader spietato e visionario, persino una barba potesse diventare un manifesto politico.
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