La maratona delle Olimpiadi di St. Louis del 1904 è una storia così assurda che sembra inventata. Eppure, ogni dettaglio è tragicamente vero. Fu un inferno di caldo soffocante, polvere, decisioni insensate e atleti spinti oltre ogni limite, che ha lasciato un segno indelebile non per l’impresa sportiva, ma per il suo puro e semplice caos. Una gara che ancora oggi ci fa chiedere: “come è potuto succedere?”.
Le condizioni erano estreme. Si correva ad agosto, con 32 gradi all’ombra e un’umidità altissima. Il percorso si snodava su strade sterrate, polverose e, incredibilmente, aperte al traffico. Le auto e le biciclette di giudici e allenatori sollevavano nuvole di polvere che rendevano l’aria irrespirabile. A peggiorare la situazione, l’organizzazione mise a disposizione un solo punto di ristoro con acqua. Il motivo? Un comitato voleva “studiare” gli effetti della disidratazione sulla performance umana, un’idea che oggi considereremmo folle e criminale.
Il primo a tagliare il traguardo, tra gli applausi della folla, fu l’americano Fred Lorz. La sua gloria, però, durò pochi istanti. Poco dopo, infatti, l’inganno venne a galla: stremato dai crampi, Lorz aveva percorso circa 17 chilometri a bordo di un’automobile prima di scendere e correre gli ultimi tratti. Squalificato immediatamente, si difese goffamente dicendo che si trattava solo di uno scherzo. Non vinse l’oro, ma la sua carriera non finì lì: l’anno seguente vinse, questa volta onestamente, la maratona di Boston.
Il vero vincitore, dunque, fu Thomas Hicks. Ma la sua vittoria è una delle pagine più cupe e agghiaccianti dello sport. Sull’orlo del collasso per la disidratazione, i suoi allenatori decisero di “aiutarlo” con un cocktail che all’epoca era considerato uno stimolante: piccole dosi di stricnina, un potente veleno usato anche come topicida, mescolate a del brandy. Oggi è una sostanza severamente vietata e letale, ma allora, nell’assenza di regole precise, fu usata per “tenerlo in piedi”. Hicks barcollò fino al traguardo, in preda ad allucinazioni, sorretto a malapena dai suoi allenatori. Crollò subito dopo l’arrivo e fu necessario l’intervento immediato dei medici per salvargli la vita. Il suo tempo fu uno dei più lenti della storia olimpica, un triste promemoria di quanto le regole antidoping e la sicurezza siano fondamentali.
Ma la gara fu una vera e propria parata di sventure. William Garcia, un atleta californiano, svenne lungo il percorso dopo aver respirato troppa polvere: le sue vie respiratorie si irritarono a tal punto da causare una grave emorragia interna, e fu portato d’urgenza in ospedale. Due corridori sudafricani, Len Taunyane e Jan Mashiani, tra i primi atleti neri africani a competere alle Olimpiadi, corsero scalzi su quel terreno accidentato, e uno di loro fu persino inseguito da un branco di cani randagi. E poi c’era il cubano Félix Carvajal, un postino arrivato negli USA quasi senza soldi. Gareggiò con dei pantaloni da lavoro tagliati e scarpe pesanti. Durante la gara, si fermò in un frutteto per mangiare delle mele marce che gli causarono forti crampi allo stomaco. Nonostante tutto, dopo essersi fermato anche per un pisolino, riuscì a concludere la gara al quarto posto, diventando un eroe per il pubblico.
Da questo disastro, tuttavia, nacque un progresso fondamentale. Si comprese l’importanza di chiudere il percorso al traffico, garantire punti di ristoro adeguati, fornire assistenza medica e stabilire regole chiare e universali. Fu anche dopo eventi come questo che la distanza della maratona venne standardizzata agli attuali 42,195 chilometri. La gara di St. Louis resta un monumento all’improvvisazione e alla sperimentazione pericolosa, ma ha contribuito, suo malgrado, a rendere lo sport più sicuro e umano.
Ecco perché questa storia continua a essere raccontata. Tra imbroglioni in auto, veleno, mele marce e cani randagi, quella maratona disastrosa ci ricorda quanta strada abbiamo fatto e perché la sicurezza e l’etica non sono optional, ma il cuore stesso dello sport. Un caos che ha cambiato per sempre la storia dell’atletica.
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